Reduce da un’ampia e un po’ raminga esperienza europea, l’onegliese di origine svizzera Gian Pietro Vieusseux si stabilisce a Firenze e vi fonda un gabinetto di lettura (1821); dalle discussioni con Gino Capponi, Giovan Battista Niccolini, Sismondi e altri intellettuali nasce l’idea di un periodico che si modelli sulla parigina “Revue encyclopédique”. Annunciato da un programma del settembre del ’20, nel gennaio dell’anno successivo esce il primo fascicolo dell’«Antologia, ossia scelta di opuscoli d’ogni letteratura tradotti in italiano». Nato in tono minore, come un florilegio degli articoli più significativi pubblicati nei periodici stranieri, alla stregua di tanti altri giornali del Sette e dei primi dell’Ottocento, il nuovo giornale si svincola ben presto da questa formula ancillare aprendosi a contributi originali, dalla letteratura alla critica, alle belle arti, alla storia, all’archeologia, alla politica, alla pedagogia, alla statistica, alle innovazioni tecnico-scientifiche, alla giurisprudenza, alla medicina, ecc.
L’“Antologia” non si propone quindi come un giornale letterario con appendici scientifiche, ma come rassegna critica di quanto si veniva facendo in Italia e all’estero per favorire la perfettibilità, come si diceva, della vita associata e la diffusione del progresso (sotto la penna del Vieusseux per la prima volta questo vocabolo assume il valore assoluto e sostanziale che conserva tuttora), animata da un energico pathos sociale e civile. L’“Antologia” non vuole essere nemmeno un giornale toscano, men che mai fiorentino, nonostante Firenze, come scriverà il Tommaseo, «rimanesse la più italiana insieme e la più europea delle italiane città»: insofferente del provincialismo angusto della cultura italiana, più volte il Vieusseux sottolineò l’aspirazione nazionale del suo periodico, che si manifesta anche nella riunione d’intellettuali di provenienza disparata e con storie diverse alle spalle.
Alla fine del ’21 arruolò il cremonese Giuseppe Montani (morirà nel febbraio del ’33, un mese prima della soppressione del periodico), formatosi nella Milano vivace ed europea degli anni venti; qualche anno più tardi, nel ’27, entra come collaboratore stabile un giovane e ombroso dalmata, Niccolò Tommaseo: sono le due colonne dell’“Antologia”, a cui hanno fornito un numero impressionante di articoli e di recensioni. Vi parteciparono anche, come collaboratori fissi o più o meno occasionali, un giovanissimo Mazzini (con due famosi articoli sulla letteratura europea e sul dramma storico), Giandomenico Romagnosi (Parma 1761), il patriota Gabriele Pepe (Campobasso 1779), Terenzio Mamiani (Pesaro 1799), Raffaello Lambruschini (Genova 1788), Pietro Colletta (Napoli 1775), Pietro Giordani (Piacenza 1774), Giuseppe Bianchetti (Onigo 1791), il traduttore di Shakespeare Michele Leoni (Parma 1776), gli storici dell’arte Leopoldo Cicognara (Ferrara 1767) e il forlivese Melchiorre Missirini, e molti altri.
Il contingente dei toscani è rappresentato da Gaetano Cioni (Firenze 1760), Urbano Lampredi (Firenze 1761), Sebastiano Ciampi (Pistoia 1769), Giovan Battista Zannoni (Firenze 1774), Emanuele Repetti (Carrara 1776), Giovan Battista Niccolini (Pisa 1782), Gino Capponi (Firenze 1792), il pedagogista Enrico Mayer (Livorno 1802), i giuristi Francesco Forti (Pescia 1806), il collaboratore più giovane, Vincenzo Salvagnoli (Empoli 1802), ecc. Non va dimenticata, accanto a quella occasionale di altri stranieri (il Rumohr, il Witte, il De Potter, il Reumont), la partecipazione assidua del console del re di Svezia Jacob Gråberg di Hemsö. Ripetutamente e caldamente sollecitato dal Vieusseux, Giacomo Leopardi rifiutò di collaborare al giornale, ma permise che per tramite di Pietro Giordani vi venissero anticipate, nel fascicolo del gennaio 1826, tre operette morali, salvo lamentarsi per gli «errori di stampa madornali, alcuni dei quali guastano affatto il senso».
Un fervido luogo d’incontro e di dibattito, dunque, fra uomini di varia provenienza, di variegata formazione culturale e di diverse generazioni: i collaboratori si sgranano infatti in un arco di 45 anni, anni decisivi, dagli anziani Cioni (1760), Romagnosi e Lampredi (1761), ai giovanissimi Tommaseo (1802), Mazzini (1805), Forti (1806). Il Vieusseux, acuto conoscitore di uomini, dovette dar fondo a tutte le sue riserve di pazienza e di diplomazia non solo per mantenere l’armonia di una scuderia così variegata, attraversata da gelosie, ripicche e smanie di protagonismo (esemplari i suoi rapporti con l’ingestibile e insociabile Tommaseo, nei quali alternò dolcezza e paterna severità), ma anche per non urtare suscettibilità di altro genere.
Valga il caso Manzoni: quando Giuseppe Salvagnoli ne attaccò gl’Inni sacri il Vieusseux non affidò la risposta al Tommaseo, che ci teneva, «perché sotto la sua penna la cosa sarebbe degenerata in polemica», ma al più mite Mayer. Anche la recensione dei Promessi sposi fu un’operazione di alta diplomazia per il direttore, sempre sollecito di non rinfocolare diatribe tra classicisti e romantici: la prima intenzione fu di incaricarne il Lambruschini, il quale, pur ammiratore (con qualche distinguo) del romanzo, se ne schermì; il Montani, che ne aspettava la pubblicazione «per fare un importante lavoro», si defilò per motivi non chiariti, cosicché l’incombenza passò al Tommaseo, che produsse in quest’occasione alcune fra le sue pagine più ambigue ed esemplari.
Altrettanta cautela, fermezza e astuzia il Vieusseux, da uomo d’affari che sapeva fare i suoi conti e non intendeva sperperare denaro nel disfare pagine già composte e nel tappare buchi, impiegò nelle relazioni con la censura granducale, alternando acquiescenza a «maliziosi deviamenti». Nonostante l’iniziale tolleranza dei censori, non solo tutti gli argomenti anche più vagamente politici, ma anche, per esempio, il tema inviso al clero del reciproco insegnamento, erano difficilmente affrontabili senza incorrere nelle forbici del padre Mauro Bernardini.
Man mano che la notorietà dell’“Antologia” come «giornale più liberale d’Italia» cresceva e che la congiuntura politica si aggravava, si accentuava il rigore censorio e si faceva più stretto il margine d’azione degli antologisti. Fino al fascicolo del dicembre 1832, attaccato ignobilmente dal clericale “La Voce della verità”, che, non più compromettente di altri, fu non la causa, ma l’occasione cercata dal governo per la soppressione dell’“Antologia”.
Nonostante non abbia mai superato i 530 associati (numero d’altra parte non così esiguo, rapportato all’epoca), nonostante il boicottaggio delle autorità, l’“Antologia” contese all’altro grande periodico dei primi decenni del secolo, la più conformista e perciò più longeva “Biblioteca italiana” di Milano, lo scarso numero di lettori dell’Italia di allora. I suoi 48 fitti volumi costituiscono una testimonianza appassionata del movimento d’idee contemporaneo, anche straniero, in anni decisivi per la crescita civile e culturale del Paese. «I pochi esemplari che per Italia andavano – scriverà il Tommaseo, rievocando dopo la morte del Vieusseux la vicenda dell’“Antologia” –, lenti sempre e impediti, sempre sospetti, quasi mezzo proibiti, sovente interdetti per paure attestanti piuttosto la debolezza della potestà che la potenza del giornale, ma veramente accrescenti ad esso potenza, passavano per molte mani, e la difficoltà li rendeva desiderati.
Gli esuli fuor d’Italia, leggendo, gioivano; taluno in quella lettura, che gli rappresentava vivente la perduta patria, lagrimava […]. I giornali stranieri citavano il fiorentino più sovente che altro giornale italiano; e ne tenevano […] autorevole la testimonianza».